Giovanni Serafini


NATURA SILENTE a Le Segrete di Bocca
Dio si stanca dei grandi regni mai dei piccoli fiori Rabindranath Tagore

Sono eleganza di fiori, esuberanza di pistilli, pregnanza di bacche mature, tortuosi profili di foglie ispirati al lussureggiante prosperare della vegetazione che con infiniti stupori di forme e colori genera instancabile nostra madre terra, inimmaginabili dalla più fervida fantasia oltre che pletorica manifestazione del più vasto enigma del creato, i temi sui quali più recentemente si è soffermato l’estro creativo di Daniela Giovannetti.

L’artista lucchese, che come molti considera “perdita di tempo e di denaro” l’aver frequentato l’Accademia di Belle Arti – unico beneficio l’apprendimento di qualche nozione di tecnica calcografica – espone dai primi anni ‘80, esprimendosi con perizia a lungo affinata e squisita sensibilità sia col disegno in bianco e nero, molto gradevole e curato oltre che elemento essenziale e ossatura di ogni sua opera, sia con la più laboriosa tecnica del colore a olio, stesa con la paziente, accurata metodica delle velature – non di rado arricchita di curiosi effetti trompe-l’œil – sperimentando nel tempo l’impiego di diverse superfici alla ricerca di quelle più adatte alla sua tecnica pittorica, dalla tavola in legno tamburato alla pietra di lavagna, dal marmo alla lastra di metallo.

La Giovannetti fa parte di quel felice novero di artisti solidamente figurativi, capaci di intuire e di raffigurare la riposante armonia delle cose in classica continuità con una tradizione di serietà e di valore che mette a dura prova la capacità inventiva degli autori contemporanei, sovrastati dalla copiosa produzione artistica che l’umanità ha accumulato nei secoli. Quella nobile tradizione di serietà e di valore destinata a durare nel tempo e capace di un linguaggio universale che non può che sconfessare la farragine di falsi artisti, aridi, tecnicamente sprovveduti e illusi che stramberie e improvvisazione siano patenti d’arte, infaustamente lusingati e promossi da curatori prezzolati e da camaleontici galleristi “avanguardisti” per mero opportunismo mercantile – rivelatisi perniciosi protagonisti di un affarismo pseudoartistico che ha devastato il campo dell’arte, ingenerando confusione e cercando di ostacolare con le più pretestuose motivazioni la schiera degli artisti veri.

Daniela Giovannetti ha dedicato una fervida stagione creativa ai libri scelti come accattivanti soggetti, dipinti con l’abilità di un maestro di Leida e resi attuali dalle inconfondibili icone editoriali, con le pagine qua e là accartocciate, accatastati in disordine come nel grande quadro “I sette palazzi celesti”, riferimento all’enigmatica omonima opera di Anselm Kiefer all’Hangar Bicocca, qui forse metafora della babelica e traballante stratificazione del sapere; o assiepati su scaffali in fortuita concomitanza di autori e di argomenti – attestazioni di conoscenza che il tempo ingiallisce e sovente confuta – o addirittura squinternati dall’uso, goffamente rifoderati per salvaguardarne un valore testimoniale o semplicemente accumulati in orgogliosa esibizione di possesso.

In seguito la pittrice ha spostato l’attenzione su altri manufatti, suppellettili, urne, reperti, vaselle, realizzando quell’autentico prodigio di “Sinfonia in grigio”, olio su tavola del 2004, che con sbalorditivo effetto tridimensionale raccoglie nell’incavo di una nicchia calcinata tre uniformi vasetti porcellanati, maculati da lievi affioramenti di terracotta, ai quali è sovrapposto un quarto non dissimile recipiente il cui gravame turba appena, senza farlo franare, il precario equilibrio dei tre che lo sorreggono. Compostezza compositiva, simmetrico bilanciamento di volumi, levità cromatica di luminescenze lattee scandite da morbide ombreggiature in un’estesa gamma di grigi ferroniani determinano un così armonioso insieme da indurre al più entusiastico consenso nella percezione di un “oltremodo vero” da cui pare levarsi una sommessa musicalità carica di dolcezza e di malinconia, ai limiti del sublime. O ancora “La tenda”, placido filtrare di trasparenze rosate da un magistrale drappeggio ai lati del quale irrompono smorzati fiotti di luce ad annunciare la malia del giorno che muore.

Si sa che l’artista sa vedere quello che non percepiamo essendo capace di sintesi geniali che seducono il nostro sguardo, pur abbacinato dall’incalzare delle quotidiane tempeste di immagini.

Il volgersi della gioiosa ispirazione della Giovannetti all’infinita ricchezza policroma e morfologica del fasto vegetale, al di là di un esercizio di puntigliosa rappresentazione di minuscole magnificenze tenute in nessun conto, ci richiama alla naturale munificenza della natura trasmettendo una consapevole, gioiosa partecipazione a un “tutto” più vasto che ci contiene e ci accompagna, risvegliando un sentimento di interiore rasserenamento, di panteistica comunione con la vastità del creato.

In controtendenza rispetto alla maggior parte degli autori, introversi e tormentati le cui opere tradiscono una cosmica infelicità e trasmettono messaggi che infondono inquietudine, Daniela Giovannetti ci offre con meritevole intenzione estetica, se non terapeutica, immagini rincuoranti della opulenza della natura, della variegata perfezione che ci circonda, riuscendo a corrispondere a quel bisogno di consolazione esistenziale, a quell’intimo desiderio di positività e di bellezza che ciascuno di noi avverte imperiosi.

E non si creda che il genere floreale in pittura sia da considerarsi marginale o più facile di altri; è famosa la precisazione di Caravaggio: “tutta manifattura gli è a fare un quadro buono, di fiori come di figure”.

La casualità, l’incompetenza, l’approssimazione non possono esistere in arte, come non esistono in nessun’altra affermazione umana di successo. Tutte le categorie tendono spasmodicamente alla specializzazione, al perfezionamento continuo, dall’industria allo sport, dalla scienza alla tecnologia applicata.

Solo nel campo dell’arte, ridotto nell’ultimo secolo a volgare accozzaglia di balordaggini, si ergono boriosi cattedratici, burocrati saccenti, spocchiosi critici non solo ad enunciare astrusi precetti di un modernismo farneticante e vacuo che ha gremito musei e gallerie di ogni sorta di scarti, ma che hanno la pretesa di imporre al pubblico il malsano gusto del finto “nuovo”, demonizzando e addirittura giudicando non-artisti quelli che come la nostra Daniela sanno ancora ben disegnare, dipingere, scolpire, incidere, rifacendosi ai temi e al gusto di quella classicità che non si stanca di trattare gli eterni temi dell’uomo.

Coerente e geniale a questo proposito la conseguente presa di posizione di Odd Nerdrum – uno dei preminenti pittori della nostra epoca con gran dispetto di quella che egli definisce sarcasticamente l’“intellighenzia” dell’arte, in occasione della mirabile mostra veneziana “Kitsch Biennale 2010” in corso a Palazzo Cini – nel rifiutare la qualifica di “artista” deprecando la produzione dell’arte moderna – divenuta fatalmente sinistra “tradizione moderna” che ha invaso il mondo occidentale – per distinguersi da essa, definendosi provocatoriamente “autore kitsch”, autore cioè di una pittura lontana dalle mode epocali ma capace di trascendere il tempo.

“Non si può – afferma Nerdrum – paragonare Warhol a Rembrandt se non per fare dell’ironia.
Il pittore – continua – preferisce l’isolamento forse perché il tempo presente non è altro che rumore e polvere che vola via. Egli aspira a una pittura senza tempo, l’antico segno dell’eternità.

Gli archetipi si fanno riconoscere nella madre che nutre il proprio figlio, nel congedarsi di un tramonto, nella chiara luce dell’alba, nel delicato sbocciare di un fiore, senza vergogna. La qualità è più importante dell’originalità.”

E osserva, con pratica saggezza: “se ti addormenti in groppa al cavallo, questi si fermerà presso la roccia. [Provate ad addormentarvi in automobile!… n.d.r.]
L’Arte [moderna] è una macchina. Il Kitsch è un cavallo.”

Le pitture di erbari, fregi floreali, festoni di frutta e nature morte – che venivano chiamate dagli antichi xenia (in greco: doni ospitali) e indicavano la frutta, la verdura, le uova che il padrone di casa faceva portare fresche ai suoi ospiti nelle stanze loro assegnate, passando poi, come racconta Vitruvio, ad indicare i quadri con quegli stessi oggetti – ebbero sviluppo come sappiamo già dall’antichità con innumerevoli esempi anche nelle sontuose ville pompeiane, ripresi nelle stilizzazioni medievali degli amanuensi su messali, codici miniati, pergamene, incunaboli, per divenire in seguito vero e proprio “genere” di pittura di cui uno degli esempi più celebri rimane “La grande zolla”, singolare acquerello e guazzo di Durer del 1513, il cui groviglio erboso raffigura con minuzia di particolari un’ampia serie di varietà botaniche; zolla con la quale, cinque secoli dopo, si è potuto felicemente misurare, con reinventata originalità, il nostro eccellente Maurizio Bottoni dimostrando che l’arte è un meraviglioso continuum per chi sappia reggerne la sfida.

Con non meno toccante sensibilità Daniela Giovannetti, dopo la liricità dei piccoli smaglianti dipinti “Fiori di campo”, esultanza di luci e profumi in un sensuale turgore di linfe, e de “La selva” evocante un ipertrofico espandersi vegetale nella offuscata visibilità di un fondale disseminato di acquatici girasoli, traslato forse di assillanti solitudini o di inarrestabili predestinazioni, ha di recente ultimato l’ampio dipinto a olio “Le quattro stagioni” suddiviso in altrettanti pannelli costellati di varietà botaniche dei vari periodi dell’anno, compendio di quelle prodigiose efflorescenze, tenere foglie ed effimera levità di fiori che oscure energie sprigionano all’improvviso da tronchi induriti dal gelo, dalla nera terra, da una roccia a picco sul mare.

Lezione di maestria, di garbo, di riflessiva saggezza nel rivelare incustoditi tesori così prossimi e così negletti, i suggestivi lavori di Daniela Giovannetti evocano l’incontenibile potenza ctonia e l’illimitata fantasmagoria della natura avvertendoci, con immagini tratte dallo sbalorditivo libro che un Dio fantasioso ha voluto aprire sotto i nostri occhi, che la vita può nutrirsi anche di serenità e di armonia per mitigare la nostalgia di un paradiso perduto.


Giovanni Serafini, Milano, 4 ottobre 2010