Matteo Metta


Nel suo elogio della bellezza metafisica delle cose, Daniela Giovannetti guarda alla pittura nordica fiamminga senza dimenticare la luce italiana. Una bellezza coperta e raccolta negli attimi brevi della vita, come quella effimera dei fiori, che sembrano dipinti da un botanico abilissimo con i pennelli. Tutto è trasfigurato nella poesia degli oggetti a volte semplici e di uso quotidiano, altre volte di varia antichità e provenienza, come le “carte di famiglia”, lettere private, disegni di antenati, che sono invece frutto di una ricerca “archivistica” negli armadi di casa. Da queste la ittrice toscana sembra recuperare l’antico afflato che le ha prodotte, umanizzandole e trasformandole in testimoni silenti del passato che fu: un processo di metamorfosi che investe qualunque oggetto o essere vegetale finito nelle sue tavole.

Elementi di un quotidiano fatto di forme, di luce diafana, di toni armoniosi e di intensi squilli cromatici. Immagini che evocano un silenzio di contemplazione e di profondissima quiete e che tuttavia sono il medium di quel muto dialogo che si instaura tra le cose rappresentate e chi le guarda. La Giovanetti fa parlare le cose stesse, senza mezzi termini o ammiccamenti, le fissa con minuziose pennellate in una dimensione magica e illusionistica, che ci fa credere che gli oggetti siano di fronte a noi, tanto che impulsivamente viene voglia di allungare le mani per raccoglierli.


Matteo Metta, agosto 2006