Gian Maria Erbesato


Coglie pienamente nel segno una delle “regine” della storia e della critica d’arte italiane, Rossana Bossaglia, quando, scrivendo della pittura di Daniela Giovannetti, afferma: “la matrice-diciamo così – psicologica di queste limpide e insieme inquietanti pitture è la natura morta; intesa come la definizione di un genere artistico sorto nel seicento, che presto comprese, non soltanto forme animali o vegetali, ormai senza vita, bensì anche vari oggetti quotidiani: ceste, bacili, ceramiche,       libri, tazze, spartiti musicali, trofei di armi e armature, cristalli di rocca, tovaglie di pizzo, candele, tappeti, oreficerie, arnesi da cucina e altro ancora”.

Balza agli occhi quanto i dipinti della Giovannetti siano improntati a una resa pittorica “sublime”, contraria alla resa pittorica “pittoresca”, secondo il dualismo di tradizione romantica.

La nostra artista sembra amare incondizionatamente l’arte antica, secentesca, in cui gli oggetti sono immersi nello spazio con assoluto rigore compositivo (si osservi, nella fattispecie, la meraviglia delle architetture di libri), ma sempre assetato di quella pennellata densa e vibrante di luce che, in questi quadri, assume un valore di commossa realtà dovuta alla capacità di scoprire in essa un’estrema scintilla di quel  quid indefinibile, ma assolutamente prezioso e raro, che è la Grazia.

In tal senso questa pittura arriva a toccare la poesia silenziosa e segreta degli oggetti comuni. La nostra pittrice si mette nella nobile scia dei gloriosi Chardin e Liotard e, in Italia delle poche ma eccellenti pittrici di nature morte: Elisabetta Marchionni, Elena Recco, Margherita Caffi, Caterina Teri, Giovanna Garzoni e poche altre; tutte intese a conquistare un’equilibrio tra le antiche formule di struttura fiamminga e il gusto rarefatto dei colori delicati, delle gamme più trasparenti di altri naturamortisti italiani, francesi, spagnoli ecc.

Daniela Giovannetti punta a cogliere il mondo delle cose quotidiane, attraverso le quali l’artista vorrebbe inglobare nella pittura l’essenza del mondo; oggetti piccoli e umili, quasi inutili nella loro unicità di funzioni; perché una bottiglia o una coppa o una nube sono senza valore storico nel loro essere per gli uomini, solo strumenti di vita.

Le forme dipinte dalla Giovannetti (e forse qui sta l’inquietudine di cui parla Rossana Bossaglia) non sono un’oggetto, non sono un luogo; piuttosto sono una possibilità delle cose di poter essere in un tempo senza storia. Il tempo si è fermato nella clessidra di quelle linee, nelle forme di quegli oggetti. Allora si può dire che la pittura di Daniela è un’universo che si sostituisce all’universo.

La pittrice va sempre oltre le cose per ritrovare solo la luce e, con le forme, vuol fare  insorgere l’energia poetica che conduce lo sguardo oltre la realtà; in quella geografia del colore ove tutto turbina e ogni cosa è pace.


Prof. Gian Maria Erbesato, Mantova,  marzo 2012