Claudio Strinati


Pittrice dotta di una tecnica prodigiosa che ha pochi termini di confronto nella pittura italiana contemporanea, Daniela Giovannetti è una amante della realtà nel senso più semplice e immediato del termine. Il suo approccio con le cose, infatti, è un approccio amorevole che non ha nulla del dottrinarismo e della durezza, per certi aspetti un po’ crudele, dell’iperrealismo americano mentre la nostra autrice è fortemente connessa con una tradizione che è veramente e tipicamente italiana e che affonda le sue radici nel Rinascimento quando la scoperta della luce come mezzo principe di rappresentazione dentro una griglia prospettica predeterminata mise molti sommi artisti in condizione di gareggiare con le apparenze del reale accentuando e non mortificando quella dimensione poetica ed estraniante che rende l’arte figurativa lo strumento per eccellenza di esplorazione dei meccanismi stessi della conoscenza sia di ciò che ci si manifesta con immediata perspicuità sia di ciò che avvertiamo latente e pure non vediamo con chiarezza ma che proprio l’arte ci permette di percepire ampliando i nostri orizzonti di vita e di esperienza, donandoci così una soddisfazione profonda.

La Giovannetti è dunque una esemplare discendente di questo modo di essere e fare l’arte, un modo di essere che le permette di affrontare la materia figurativa con coinvolta passione e non con freddo distacco. Il suo realismo, che rifulge in certe opere in maniera veramente impressionante per acume visivo e attitudine mimetica, dialoga soprattutto con altre esperienze novecentesche che hanno restituito al “saper vedere” tutta la dignità e la rilevanza che questo tipo di approccio all’arte merita. È quella attitudine, appunto, amorevole e benevola a ricostruire le sembianze del reale che ha visto in un passato più o meno recente le sortite di egregi ingegni della pittura, come l’armeno ma italianizzato Gregorio Sciltian, il coltissimo e troppo precocemente scomparso Domenico Gnoli o il cavilloso e sbalorditivo Luciano Ventrone, per citare solo tre casi che hanno illuminato il cammino del realismo nel nostro Paese. La Giovannetti ha comunque una cifra tutta sua non comparabile a nessun altro e occupa, si può dire, una posizione eminente in questo peculiare aspetto dell’arte figurativa.

Non c’è dubbio che inquadrarla nella categoria dell’iperrealismo, americano o meno, le farebbe torto. Ella stessa sa bene di essere artista della luce e dell’epifania delle cose, proseguendo un discorso artistico che in anni remoti fu definito del “realismo magico”. In verità, a prescindere dalle singole raffigurazioni, ciò che la pittrice ci fa vedere è l’esplorazione da lei incessantemente compiuta in una sorta di “selva”, non oscura però alla maniera dantesca, ma limpida e accessibile, che è la selva dell’esistenza stessa. Dentro questa metaforica indagine l’artista vede tutte le cose, animate o inanimate, che ci circondano come altrettanti passaggi delicati, come se le cataste dei libri o i fiori che spuntano da un terreno incognito, fossero montagne, campagne, boschi, mari, oasi di sosta o percorsi faticosi che l’artista attraversa tracciandone una mappa di fisica evidenza e di tranquillizzante definizione.

Da grande realista la Giovannetti costruisce un mondo parallelo a quello vero, ma verissimo e plausibilissimo nella percezione di ciascuno di noi. Sembra quasi, attraverso la sua opera, che tutti possano facilmente toccare con mano il saggio principio per cui ciò che è vero non necessariamente è verosimile e ciò che è verosimile non sempre e necessariamente è vero.


Claudio Strinati, 2015